VENERE IN PELLICCIA

Alla seconda prova teatrale dopo il già notevole Carnage, Roman Polanski ci offre un saggio di ciò che il cinema – come la letteratura, la musica, le arti figurative …. – dovrebbe e potrebbe offrirci, senza 3D, effetti speciali o esterne mirabolanti. Due attori feticcio – la compagna Emmanuelle Seigner e l’alter-ego Mathieu Amalric – e una storia che avvolge come una spirale, peccaminosa e viziosa, parabola di quella commedia lussuriosa e tragica che ci ostiniamo di potere teleguidare, sui binari delle comuni convenzioni: la vita vissuta.
Invece, come dice la protagonista, la vita fa di noi quello che siamo in un momento imprevedibile. Stop.

 

La Parigi plumbea del piano sequenza iniziale, col vento che sferza e la pioggia incessante, è l’unica concessione al tempo e al luogo, prima di entrare laddove niente è più eccitante del dolore, il teatro dove va in scena la confusione dei ruoli, il trading places delle anime perdute, lo scontro tra realtà e fantasia. Attuale oggi come nel 1870, anno di pubblicazione del romanzo Venere In Pelliccia di Leopold Von Sacher-Masoch nel quale il protagonista stipula un contratto con una signora che identifica come la dea Venere, venendone soggiogato ma disposto a tutto pur di viverle accanto. Versi poi messi in musica da Lou Reed in Venus In Furs: strike, dear mistress, and cure his heart…kiss the boot of shiny, shiny leather… whiplash in the dark…

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Il regista della trasposizione teatrale del romanzo, Thomas, sta concludendo una giornata frustrante e inconcludente di audizioni quando compare Wanda, all’apparenza volgare e inadeguata. Ma ecco, il momento imprevedibile. Il cambio di direzione che sposta la linea di confine. Della vita di Thomas e Wanda. Potenzialmente, delle nostre.
Il gioco si fa pian piano perverso e ammiccante, le battute recitate e dialoghi reali si sfiorano, vanno a sovrapporsi, la trasgressione mette a nudo le anime perché non è il corpo ad essere lacerato, non di sadismo e masochismo Polanski vuole parlarci. Ma del lato escuro dell’esistenza, della passività e delle verità non dette, nella recita del copione quotidiano.