PHILIP ROTH, PASTORALE AMERICANA

Avevo deciso. Questa sarebbe stata l’estate di Pastorale Americana. Ci sono libri che lasci sullo scaffale per anni, ne soppesi l’importanza, ci giri intorno, ti arrovelli nel trovare sostituti, destinati ad essere propedeutici agli stessi. I libri dormienti. Quelli che diventeranno epocali nella tua lunga strada di lettore, mica come quelli che divori in un attimo, o quelli che lasci a pagina quaranta. No, li riservi per un momento aulico. Quando sarai pronto. Perché mica sempre sei pronto a farti squarciare l’anima, a scandagliare nel profondo dei quesiti dell’esistenza, a confrontare gli incroci della tua vita con quelli dei personaggi che trovi sulle pagine. Non è, per intenderci, che ti trovi per caso, di notte, ad ascoltare Nick Drake o Nick Cave. Ti ci porta la vita. Questa estate 2014 la vita mi ha portato Philip Roth. Che avevo già incrociato nel passato senza avere mai avuto l’ardire di affrontare la scalata di Pastorale Americana. Due compagni di viaggio mi hanno spronato, forse tre. Di sicuro Julian Barnes e il suo Il Senso Di Una Fine, elegia del rimpianto, delle occasioni perdute e delle ambizioni fallite, con l’aggiunta del disperato e sconfitto tentativo di aggiustare la Vita, ben lungi dall’assomigliare alla Letteratura. Ma anche Richard Ford, con Sportswriter, L’Estrema Fortuna e il recente Canada, il quale mette in scena le imperfezioni della vita, da accettare solo se ritenuta imperfetta: c’è un trauma, il naturale spaesamento, poi la salvifica accettazione.

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Nella storia dello Svedese – ebreo benestante negli anni cinquanta della costa est degli Stati Uniti, campione sportivo, marito di Miss New Jersey e professionista esemplare – il trauma arriva di soppiatto, nella forma più crudele: la figlia Merry diventa terrorista e sconvolge la vita e l’equilibrio familiare. Devastante. Sbalzato e proiettato in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico. L’ascesa e la caduta. Ecco lo spaesamento, il rimpianto, segue il tentativo di aggiustare le cose…. Ma allora, Julian Barnes… Richard Ford…. Era già tutto lì. 1997, il Giudizio Universale dell’America.

Nessuno attraversa la vita senza restare segnato dal rimpianto, dal dolore, dalla confusione e dalla perdita. Anche a quelli che da piccoli hanno avuto tutto toccherà, prima o poi, la loro quota d’infelicità. Nella vita dello Svedese c’era stata la coscienza e ci sarebbe stata la sventura.
Quindi è bene cominciare a farsi domande, prima che sia troppo tardi, senza pensare che tutti hanno torto tranne noi. Giacchè all’improvviso tutto cambia e diventa impossibile. E chi è pronto ad affrontare l’impossibile che sta per verificarsi? Chi è pronto ad affrontare la tragedia e l’incomprensibilità del dolore?
Lo Svedese vede il baratro, assiste al crollo dell’utopia dei giusti e si trova confinato nel trionfo della rabbia cieca, nell’America folle e incivile, ridotto – lui bello, atletico, di successo – a maschera di uomo ideale. In balia di qualcosa d’impazzito, ma vivo. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Se riuscite a farlo, ritenetevi fortunati, perché, come dice Merry, la vita è solo un breve periodo di tempo nel quale siamo vivi.