Stop alla Fast Fashion per l’Haute Cuture: il caso Armani
di Maria Luisa Domino
Rallentare il sistema produttivo e reinventarsi, così Giorgio Armani risponde alla pandemia da coronavirus, lanciando un messaggio al mondo della moda: privilegiare il prodotto finale a vantaggio del consumatore. La moda secondo Armani, dunque, parrebbe volere rivalutare più il suo valore sociale che economico, restituendole il suo antico splendore. Stop alle sfilate di moda, vero trampolino di lancio della filiera produttiva sempre più frenetica, in cui la moda sembrava quasi imporsi nel mercato. Adesso, se da un lato la pandemia mette in ginocchio il motore produttivo; dall’altro, secondo il celebre stilista, è il momento giusto per rendere la moda più sostenibile.
Prima della pandemia un capo di haute cuture veniva riproposto da brand più economici e indossato da una cameriera, un’impiegata, qualsiasi persona che non avrebbe mai potuto vantare nel suo armadio un abito Armani, pur apprezzandolo in ogni suo dettaglio; una rivoluzione democratica, che si è fatta sempre più strada, con ripercussioni apparentemente positive sui consumatori.
“Niente di più immorale”, ha dichiarato in epoca di pandemia Giorgio Armani, associando questo sistema produttivo al declino della moda. La pandemia, spiega il celebre stilista italiano, sta suggerendo alla moda di abbandonare questo ciclo di consegna continuo, che sfianca il sistema produttivo, nella speranza di vendere di più. Per questo motivo, il brand Armani punta alla qualità, accostando ancora una volta il termine moda con il valore dell’unicità. Non per nulla, per Armani il capo è una creatura e come tale ha “diritto” di vivere abbastanza per essere apprezzato, scontrandosi con le fugaci tendenze del momento, che finora hanno animato il mondo della moda. “La pandemia è un monito per tutti noi, per imparare dagli errori e per immaginare una società meno individualista”, ha chiosato Armani, dopo essere stato premiato lo scorso 18 gennaio con un riconoscimento dedicato alla memoria del finanziere e superstite dei nazisti, Ermando Parete. Così, se le passerelle permettevano di apprezzare un capo nel suo filato, nel suo taglio e nel suo stile, adesso è uno schermo con dei pixel a filtrarne la sua bellezza e a immetterlo direttamente sul mercato.
La pandemia è un monito per tutti noi
Tuttavia, il cambiamento più significativo proviene al livello immateriale: il lockdown ha imposto un nuovo modo di vestirsi, determinato dal ridursi delle attività sociali e mondane. Persino il bel mondo ha abbandonato lo shopping tradizionale, prediligendo multibrand e-commerce, come Farfetch, che ha visto aumentare le sue vendite del 90% a discapito della chiusura di negozi fisici, letteralmente stroncati dall’interruzione del ciclo produttivo. La pandemia ha cambiato la percezione dell’abbigliamento e il concetto stesso dell’immagine. Se ante coronavirus il consumatore prevedeva un abito diverso a seconda dei momenti della giornata e delle relazioni sociali, sottoposto a regole precise, un vademecum che qualsiasi donna e uomo dell’alta società avrebbe dovuto seguire; il post covid ha cambiato la percezione simbolica dell’abbigliamento.
In questo modo, un manager non è più riconoscibile dal suo doppiopetto disinvolto così come una donna, in procinto di un cocktail pre serale, non sarà più etichettata attraverso il suo tubino nero. La pandemia fa saltare gli schemi della moda, a favore dell’elevated loungewear, l’abbigliamento di casa di lusso. L’orientamento, infatti, è quello di rendere l’abbigliamento più funzionale, senza per questo abbandonare lo stile e il senso estetico. E’ il caso di affermare che la pandemia stia cambiando la società a livello strutturale. Ognuno di noi è soggetto al contagio a prescindere dal fatto che possegga o meno una carta gold; si riscopre, quindi, un concetto inedito di uguaglianza sociale, che si fa sempre più avanti in tutti gli aspetti della vita. In altre parole c’è più voglia di democrazia.
Chissà, allora, se re Giorgio riuscirà a incoronare la sua regina, sua maestà la moda.